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Se il telefono non ascolta

di Antonio Dini

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27 novembre 2008


È un sogno antico ma sembra che purtroppo sia destinato a rimanere tale, almeno per un po'. Il futurologo Peter Cochrane pensa infatti che solo nel 2050 le macchine saranno in grado di capire perfettamente quello che le persone dicono, metterlo nel giusto contesto e rispondere adeguatamente. «Negli ultimi 15 anni la tecnologia di speech recognition è già stata in grado di distinguere una singola voce da un sottofondo rumoroso meglio dell'orecchio umano», puntualizza Cochrane. C'è però da aspettare ancora un bel po': per adesso, infatti, non ci siamo proprio.
L'ultimo a mettersi in fila per questo sogno antico della macchina che ascolta e capisce il suo padrone umano è l'iPhone di Apple, con la nuova versione del piccolo software gratuito di Google, Google Mobile App, che permette di parlare direttamente nel microfono per effettuare le ricerche sul popolare motore senza bisogno di usare la tastiera. L'idea ha senso: è comodo parlare quando si usa un telefono, in effetti. Peccato che il programma non funzioni come promette.
E la scusa che il vostro cronista non sia madrelingua inglese, nonostante gli infiniti corsi di pronuncia, non attacca: il software è localizzato solo in inglese («nella sua variante nordamericana», precisano quelli di Google) ma fa impazzire anche i ragazzi delle start-up di Palo Alto e Cupertino come quelli di New York e Atlanta. Il web è pieno delle proteste di pionieri delusi che avrebbero voluto stupire gli amici e i parenti («Guarda mamma, senza mani!») e invece al posto di «Starbuck near Union Square in San Francisco» si vedono recapitare risultati per un hotel «Grand Hyatt» da qualche parte nell'emisfero occidentale. A voler provare con «Il Sole 24 Ore», nome oggettivamente difficile da pronunciare in inglese, ritorna un clamoroso «Nelson V 24 Police Dept.» che fa tremare di gioia gli scettici dell'intelligenza artificiale.
Il punto è proprio quello: il contesto. Le voci cambiano da persona a persona però, seppur tra mille aggiustamenti e gesticolando ampiamente, di solito gli esseri umani tra loro si capiscono. Non è quello che dicono, ma il contesto, il modo e l'enfasi con cui lo dicono. Non è un caso se il riconoscimento vocale si sposa con l'intelligenza artificiale. Google Mobile App, con un trucco da prestigiatore, registra la richiesta dell'utente iPhone e la spedisce alla Cloud di Mountain View: ci vuole una potenza di calcolo che l'iPhone neanche si sogna per provare a sbrogliare la matassa del senso dietro alla pronuncia delle parole. Facciamo così anche noi con il nostro elaboratore centrale posto tra le orecchie: ascoltiamo a sprazzi quello che gli altri ci dicono e lo rimettiamo insieme tramite un algoritmo molto potente, in grado di fare ipotesi e stabilire connessioni di senso con velocità ed efficienza. Come animali sociali, ipotizzava Seneca, siamo stati costruiti per questo. Anche se, precisava Eugène Delacroix, spesso detestiamo i nostri simili.
Il sogno della macchina che capisce l'uomo, cioè il computer di bordo di Star Trek (1966) o di 2001 Odissea nello spazio (1968), è precedente alla creazione dei primi elaboratori: il problema si era posto con chiarezza già nelle riflessioni dei teorici degli anni Trenta e Quaranta. E di tecnologie ne sono state sviluppate parecchie: da quelle che vengono utilizzate nei risponditori automatici dei centralini ai sistemi d'arma non critica usati nei cruscotti degli F16 e dei Tornado, fino agli apparecchi per le persone con disabilità e al nocciolo dei moderni sistemi operativi. Spesso sono tecnologie poco "intelligenti": devono solo capire quale parola è stata pronunciata e non il suo senso. Altre volte sono un po' più sofisticati: pochi sanno che Mac Os X, Linux e Windows Vista possono ricevere input anche vocalmente (con risultati non sempre azzeccati) in alternativa a mouse e tastiera. Per non parlare poi dei software molto popolari soprattutto fra i pigri scrittori nordamericani, che dopo un'oretta di addestramento alla propria voce promettono una precisione del 95% e più.
Intel usa come leva di marketing anche il riconoscimento vocale: da venti anni a ogni nuova tecnologia che presenta nel settore dei microprocessori c'è qualche top executive che ammiccando fa presente che tra poco, anzi pochissimo, avremo la potenza di calcolo necessaria per far capire al computer cosa gli stiamo dicendo. Per adesso, il computer buono di Star Trek e quello meno buono di Odissea nello spazio rimangono nei film, così come Google Mobile App rimane dentro l'iPhone: promette di capirci ma poi se ci arrabbiamo non ci fa neanche litigare. Ce n'è ancora di strada prima che la macchina diventi davvero umana.

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